venerdì 6 febbraio 2009

SRAELE-LA CALMA-LA LIBERAZIONE DI SHALIT



Israele, la "calma"
e la liberazione di Shalit

L'accordo per «la calma» è ormai imminente. Dopo tre settimane di guerra e altre due passate sotto il lancio di qualche missile con conseguenti risposte aeree degli F15i, Israele e Hamas sono vicini a una tregua prolungata.



Deposte le armi, la partita si gioca su due piani. I miliziani chiedono l'eliminazione del blocco e l'apertura dei passaggi; Israele non vuole più sentir suonare l'allarme anti-missili nelle città attorno la Striscia di Gaza. E soprattutto, sta lavorando - in queste ore sempre più intensamente - per ottenere la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit.

Shalit è stato rapito nell'estate del 2006 ed è oggi, vivo, nelle mani di Hamas all'interno della Striscia. Israele, per riaverlo in patria, sarebbe disposto a sbloccare l'80 per cento delle importazioni a Gaza (il restante 20 per cento dei prodotti resterebbero al confine, perché considerato materiale utile a fabbricare armi). Intanto le pressioni per liberare il soldato aumentano. E sulle poste elettroniche degli israeliani e le mailing list delle comunità ebraiche di tutto il mondo sta rimbalzando una lettera scritta dalla madre di Gilad Shalit, Aviva Shalit, nei mesi passati.

«È figlio mio!!!! La prima vita che ho creato, sangue del mio sangue, il mio amore. La sua voce l'ho sentita per vent'anni, dalla sua nascita fino all'ultima telefonata: "Mamma, sto tornando a casa, mi senti?" Ti sento, piccolo, chiaro come il tuo primo pianto». Inizia così il testo che racconta l'amore di una mamma che ha curato un figlio. Che lo ha educato. Che ha avuto paura, la sera, nell'attesa del suo ritorno in casa: «Guardavo l'ora. Pensavo, dove sei? E aspettavo che tornassi. Basta che torni salvo da me». Una madre rimasta senza fiato quando è partito militare.

«Il giorno in cui hai chiuso la porta di casa e sei partito per l'esercito, tutto emozionato dal servizio, ho cominciato a contare i giorni finché ritornassi da me. Ogni sabato che tornavi, ringraziavo Dio, ho giurato di andare in sinagoga, fare tutte le mitzvot (i precetti ebraici, ndr), ringraziavo Dio perché mi riportava mio figlio. Ma alla fine mi trovavo sempre impegnata a lavare, stirare e cucinare per te in quei giorni». Nella sua lettera, la madre di Shalit racconta i momenti terribili in cui le dissero del rapimento. «E quando ho sentito bussare alla porta, ho quasi sentito che qualcosa non andava. Ho aperto la porta sperando di non trovare quello a cui pensavo: due persone in divisa e un paramedico.

Uno di loro, il tuo comandante, mi ha stretta forte la mano. Non avevo bisogno di sentire cosa aveva da dire. Le lacrime mi bastavano per capire che qualcosa non andava, qualcosa era successo. Al telegiornale facevano vedere le tue foto. Ed io piangevo. Sono andata in sinagoga. Pregavo. Mentre dormo ancora prego perché tu torni. È il mio figlio. Mio. Rapito a Gaza. Mio figlio che forse tornerà».

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Fabio Perugia

05/02/2009

http://iltempo.ilsole24ore.com/interni_esteri/2009/02/05/985882-israele_calma.shtml

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