giovedì 8 gennaio 2009

Falchi e colombe in Israele

L'ANALISI
Falchi e colombe in Israele
ma la chiave della tregua è al Cairo
di VINCENZO NIGRO



Nicolas Sarkozy e Hosni Mubarak

IL NEGOZIATO diplomatico e l'attività militare a Gaza sono arrivati entrambi a un punto di svolta. Per la prima volta, un inviato israeliano è volato al Cairo per valutare se il piano per un cessate-il-fuoco a cui lavora l'Egitto è accettabile per Israele. Nel frattempo ieri notte il governo israeliano si è diviso sulla necessità di passare a una "Fase 3" nell'attacco a Gaza. Dopo i bombardamenti aerei (Fase 1), dopo i giorni iniziali dell'invasione di terra (Fase 2), lo Stato maggiore israeliano ha richiamato i riservisti necessari a una Fase 3 che prevede maggiori combattimenti nelle aree urbane per cercare i capi e i miliziani di Hamas, per scoprire nuovi depositi di armamenti, in generale per estendere il controllo di nuove zone della Striscia.

Con lo spettro pauroso che si possa ricorrere anche a una Fase 4, una vera e propria occupazione totale della Striscia, di periodo limitato ma con decine di migliaia di soldati e riservisti schierati dentro Gaza e ai suoi confini. Con la missione di distruggere definitivamente Hamas a Gaza.

I ministri premono per la "Fase 3".
Il problema è che Israele non riuscirà a rimanere in questa condizione di stand-by per molto tempo. I riservisti che sono stati mobilitati per la Fase 3 non possono attendere troppo, sono stati richiamati dai luoghi di lavoro, dalle loro famiglie, dalle loro città: poche ore e questa situazione di attesa provocherà una reazione contro l'"indecisione" del governo Olmert. Un assaggio delle critiche dell'opinione pubblica è esploso ieri notte proprio nella riunione del governo in cui la trojka Olmert-Livni-Barak ha illustrato ai colleghi le idee per le prossime fasi della guerra e del negoziato diplomatico.



Quando l'operazione Piombo Fuso è iniziata, l'unico ministro a dire "andiamo fino in fondo, entriamo a Gaza per rovesciare Hamas, per distruggerla del tutto" fu Haim Ramon. L'ex ministro della Giustizia (costretto alle dimissioni per una storia di sexual harassment, oggi ministro senza portafoglio), ex ufficiale dell'aeronautica, ieri notte è stato spalleggiato da Meri Shetrit, da Rafi Eitan, Daniel Friedman e Avi Dichter. Il gruppo dei "falchi" viene contrastato innanzitutto dal ministro della Difesa Ehud Barak, che conoscendo bene i pericoli di una continuazione della guerra vorrebbe vedere Israele prevalere al tavolo di un negoziato diplomatico dopo i successi militari delle prime fasi.

La cautela di Barak
I giornali israeliani scrivono che nel governo Barak è riuscito ad ottenere una sorta di potere di veto sullo sviluppo della campagna militare; è lui che dirige concretamente le operazioni militari, e soprattutto senza di lui non si va avanti. Ma se nelle prossime due o tre giornate il negoziato diplomatico non porterà da qualche parte, Barak sarà in crisi. Dovrà ordinare un altro affondo militare, per non essere accusato di indecisione dai sedicenti "macho" del governo e forse dallo stesso Olmert.

Tzipi Livni, la ministro degli Esteri, in questa fase è con Barak: "Hamas è stata colpita molto duramente, dobbiamo raggiungere un accordo politico che riconosca questa sua debolezza. Se poi Hamas dovesse tornare a violare gli accordi, noi potremo tornare a colpirla", ha detto la Livni ai colleghi secondo Haaretz. Una posizione ragionevole, prudente, ma anche questa debole se la strada dell'accordo non si aprirà rapidamente.

La Ue inesistente
Ma allora, cosa rallenta l'accordo, qual è lo stato dei mille negoziati che decine di attori sembrano volenterosi di offrire alle parti? Una sola cosa è chiara: tra i vari, possibili mediatori o protagonisti la Ue in quanto tale è inesistente, sopraffatta da una crisi che come istituzione la vede incapace di muoversi. La missione della trojka europea dei giorni scorsi è stata ridicolizzata da israeliani e palestinesi, che hanno visto i tre ministri degli Esteri europei, Javier Solana e la commissaria Ferrero Waldner sgomitare per entrare nell'obiettivo dei fotografi.

Rimangono come al solito gli stati nazionali. La mediazione turca, molto attiva e concreta, sembra in crisi perché Erdogan (per problemi di audience islamica interna e regionale) è stato costretto ad alzare di molto il tono delle critiche contro Israele. Ma la Turchia in ogni modo rimane utile a Israele e Stati Uniti, perché parla con Hamas e soprattutto con l'Iran.

Francia, Usa, Egitto
Rimangono Francia, Stati Uniti e soprattutto Egitto. La Francia ha goduto della forza di volontà e del presenzialismo di Sarkozy, che forte della presidenza di turno Ue che scadeva il 31 dicembre, si è lanciato in un tour di incontri e proposte. Sarkozy si è agitato molto per la stampa e per i media, ha fatto qualche gaffe, ma ha visto giusto in due punti. Uno, muoversi subito, con forza, con sprezzo del pericolo (e forse del ridicolo). Due, individuare l'Egitto il paese chiave del mondo arabo in cui provare a fissare il tavolo del negoziato.

Egitto centrale per vari motivi: innanzitutto perché è il paese che condivide il confine di Gaza, frontiera che tiene sigillata per impedire che in qualsiasi modo la crisi possa travasarsi sui suoi territori. Poi perché l'Egitto ha rapporti diplomatici con Israele, è stato il negoziatore delle precedenti tregue tra Israele e Hamas, sarebbe il negoziatore per il rilascio del soldato israeliano Shalit, è ancora il luogo in cui si ritrova la Lega araba. Sarkozy da qualche ora è rientrato in Europa; adesso parla di "iniziativa bilaterale Francia-Germania". Presto magari vedrà Gordon Brown e anche lì lancerà qualcosa di bilaterale con Londra che avrà comunque un solo obiettivo: riportare la Francia saldamente con i piedi nel piatto del Medio Oriente.

Cairo ha la chiave per chiudere Rafah
Vediamo allora Stati Uniti ed Egitto: nonostante l'apparente assenza dovuta alla transizione Bush-Obama, in questi giorni la diplomazia Usa è stata silenziosamente attiva. Innanzitutto in Egitto, dove gli americani stanno lavorando al cuore della soluzione che permetterebbe la tregua: rendere impermeabile il confine di Rafah tra Gaza ed Egitto, bloccare il rifornimento di armi per Hamas.

L'Egitto sa benissimo che con una tregua mal congegnata, nel giro di 6 mesi Hamas potrebbe riarmarsi. Israele a quel punto tornerebbe per forza di cose a colpire di nuovo, ad agire in maniera ancora più devastante per l'equilibrio politico della regione. Per questo gli Usa (con Condoleezza Rice in prima fila nelle telefonate) stanno premendo per offrire la loro assistenza agli egiziani. Il corpo degli ingegneri della US Army potrebbe occuparsi di controllare che tra Gaza e l'Egitto non ci sia più un solo tunnel in piedi.

Perché Mubarak prende tempo?
Ma l'Egitto stenta ad accettare una presenza militare straniera (americana) sul suo territorio. Motivi di sovranità nazionale. Ma anche perché agli occhi di buona parte delle masse arabe l'Egitto ha già cospirato parecchio ai danni di Hamas con Israele. Nei fatti potrebbe essere anche così, perché Mubarak ha capito da tempo che Hamas è una sfida mortale per il suo regime. Negli anni dell'Intifada il regime egiziano, i suoi media e i suoi leader religiosi vedevano i bus che esplodevano a Gerusalemme come un esempio di auto-difesa dei palestinesi. Quando però i kamikaze hanno iniziato a farsi saltare anche nel Sinai o a Sharm el Sheik agli egiziani è scattato un segnale di allarme.

Tra l'altro Hamas in controllo a Gaza significa un esempio per quei Fratelli Musulmani che in Egitto vengono repressi perché sono l'unica alternativa di governo al regime militare.

Hamas a Gaza, inoltre, significa "avere l'Iran ai nostri confini", come ha detto apertamente il ministro degli Esteri di Mubarak: la propaganda araba radicale, quella finanziata anche da Teheran, ha già iniziato a definire il comportamento dell'Egitto semplicemente come quello di uno sharik, un partner. E per gli integralisti cos'altro è un partner arabo di Israele se non un collaborazionista?

Ecco perché tanta lentezza nel fissare un accordo che molti tra i grandi protagonisti della crisi pure vorrebbero. Ma senza un'intesa in tempi rapidi, la macchina politico-militare israeliana potrebbe essere portata a una nuova escalation, provocata dall'incoscienza dei capi di Hamas a Gaza, che dai loro bunker proclamano di essere pronti alla morte mentre sotto le cannonate israeliane è rimasta solo la popolazione civile.

(8 gennaio 2009)



http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/esteri/medio-oriente-46/nigro-analisi-giovedi/nigro-analisi-giovedi.html

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